da:www.playboy.it - giugno 2011

Articoli su Davide e il suo mondo apparsi su giornali e riviste

Moderatore: Baristi

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Messaggioda marina » mer giu 08, 2011 5:08 pm

Anteprima dell'incontro con il cantautore comasco, il 9 in edicola l'intervista completa

Abbiamo incontrato Davide Van De Sfroos nell’ambiente che gli è più congeniale, il suo territorio, a Lenno sul lago di Como. Un posto incantevole, a pochi passi da Milano, che ci fa capire fino in fondo perché molti vip abbiano deciso di prendere casa qui.
PLAYBOY: Ricordi quando hai preso in mano una chitarra?
DAVIDE VAN DE SFROOS: «La prima volta che ho preso in mano fisicamente una chitarra era il compleanno di mia cugina a Lenno, dove vivo ancora oggi. La chitarra aveva tre corde e io avevo forse il doppio di quelle corde di età. Ricordo che le pizzicavo e mi sembrava incredibile che ne uscisse un suono. Anche se non mi è venuto in mente subito che fosse possibile suonarla, si trattava piuttosto della sensazione di come quando si prende in mano un fucile o una zappa, un qualsiasi strumento in grado di fare qualcosa. Col tempo ho scoperto che la chitarra era uno strumento in grado di fare molto. Pensate a Woody Guthrie, che teneva in mano una chitarra malconcia con appiccicato un adesivo con scritto “This machine kills the fascists”. Allo stesso modo oggi posso dire che questa “macchina” salva determinate persone: quelle che si emozionano, che hanno bisogno di un momento di pausa, o di una chance. Perché tutti abbiamo in mano strumenti con cui lavorare, guadagnare, governare, ma gli strumenti dell’emozione sono pennello, penna, macchina fotografica. E la chitarra».
PB: Quando ti sei accorto che l’avresti suonata seriamente?
DVS: «In realtà prima ho capito che avrei scritto, perché scrivevo anche quando non c’era il compito per la scuola. Riempivo di pensieri un quaderno perché avevo la sensazione di vivere le cose ma che solo quando le avessi scritte avrei chiuso il cerchio, facendole diventare un anello da indossare. Ricordarle e non farle morire era diventato per me una specie di tormentone. Scrivevo e riportavo storie che in qualche modo sentivo di dover rendere alla gente che le aveva ispirate. Io dalla gente e dal territorio ho raccattato quasi tutto e per me è stato fondamentale restituire in forma fantastica, epica o poetica tutto quello che ho ricevuto. Si trattava di storie prese in prestito e ridate, mai fagocitate completamente da me. E un bel giorno mi sono reso conto che, per poterlo fare rapidamente, l’alternativa migliore era di cantarle a qualcuno. Come facevano i nostri cantastorie o gli story tellers americani come Pete Sieger, Bob Dylan o lo stesso Woody Guthrie».
PB: Quale grande artista del passato ti piacerebbe essere stato?
DVS: «Per la libertà e la multi-varietà dei suoi esperimenti sicuramente Peter Gabriel; Tom Waits per la poetica un po’ simile alla mia nel raccontare storie e per la molteplicità di pelli che è riuscito a cambiare. La longevità artistica di Bob Dylan non è trascurabile, così come la costanza nell’essere testimone del suo tempo. Bob Marley per la capacità di rappresentare la musica, per il modo di raccontare le cose con apparente semplicità essendo al tempo stesso un uomo, uno spirito sacerdote di qualcosa e un musicista».
Marco Infelise

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