Davide Van De Sfroos: "Yanez"
I confini sempre più vasti del contrabbandiere del lago
di Giorgio Maimone
Diavolo di un Van De Sfroos, mi ha bidonato ancora! Lui sa che a me piace ascoltare un disco (disco, disco, quale album!) in sequenza: dal primo all’ultimo brano, senza random, senza shift, shuffle, fast forward e diavolerie varie. E cosa mi combina. Fa questo “Yanez” e piazza all’inizio una serie di sette belle canzoni, chiuse dal brano omonimo che è andato a Sanremo. Poi Davide è un perverso e quindi ama stipare i dischi all’incredibile. Ne discende che è difficile, casualmente, ascoltare tutto l’album in fila. Ne ascolto la prima parte e, molto sovrapensiero, lascio scorrere qualcosa anche della “seconda facciata”, ma non ci faccio caso. Il tempo di sbilanciarmi in: “sì un buon album, ma troppo lungo e “Pica!” aveva qualcosa in più” che arriva il fine settimana.
Sabato e domenica mi inchiodo all’ascolto matto e disperatissimo ed ecco che si svela tutta la perfidia del Davide. La seconda metà del disco è carta abrasiva, ti prende lo stomaco, i nervi, la sinderesi e te le miscela senza interruzione di continuità. Non con la potenza della musica, che anzi si fa calma e riflessiva, ma con i temi trattati. La “facciata B” è un pezzo d’opera senza dubbi in mezzo! Da “El pass del gatt” fino a “Rosa del vento” si tira il fiato solo, per modo di dire, in “Setembra” che è un brano apparentemente facile. Ma il resto! Signori miei, che brividi, che emozioni, che grandi canzoni!
Davide ha sempre avuto facilità a scrivere storie, ma queste storie non sono come le solite. Lo si capisce, lo si sente: sono più vicine, sono più intime, sono meno distaccate. Certo, spesso parlano ancora e anche di altri, ma il Davide che stava profondo sotto le sue canzoni in passato, qui appare molto più in superficie, appena sotto pelle, con le sue passione, le sue idiosincrasia, le cose che ama e quelle che non riesce a mandare giù. Ascoltatelo bene, ascoltatelo a fondo, ma, fatemi un piace, leggetelo anche. Non per il dialetto, che è lo stesso mio e non faccio nessuna fatica a seguirlo, ma perché le parole, in qualsiasi lingua, in qualsiasi calata, in qualsiasi accezione, sono importanti, sono essenziali, sono pietre che, a volte, rotolano.
Eh sì, in Davide Van De Sfroos c’è assimilato, capito e digerito il meglio della musica che ci è girata intorno: da Bob Dylan, a Springsteen (quello di “We shall overcame” o di “Nebraska”), da Woody Guthrie ai Pogues, da John Mellencamp a Joe Ely, dal punk ai Clash, da De André a Jannacci. E poi, in mezzo, mischiato e indistinguibile, in fin dei conti c’è tutto Davide Bernasconi.
Facciamo una pausa e buttiamoci a corpo morto nel disco: prendiamo la penultima canzone: “Ciamel amuur” (chiamalo amore) e fate attenzione a cosa sta raccontando. E’ così bella che non posso che pubblicare tutto il testo. Attenzione: è raccontata in prima persona femminile, ma è cantata da Davide con normale voce maschile. Ne conoscevo uno che faceva così: si chiamava Fabrizio De André.
E non c’è niente da fare. O in laghèe o in italiano sono brividi comunque, è commozione, è impressione grande. Stare dalla parte degli ultimi è la lezione di De André. E Davide prende l’ultima degli ultimi: una collaborazionista dei fascisti, rapata a zero ed esposta al pubblico ludibrio. Poco conta, per gli altri, che lo abbia fatto per amore, per fermarli mentre stavano inseguendo “lui”; questo lui così amato che lei non esita un attimo ad alzare la gonna bella e, nonostante la paura, a dire “dai” a tutti quelli che lo stavano inseguendo. Poi è stata messa all’indice, rapata a zero, bollata come puttana dei fascisti, ma lei sa che l’ha fatto per amore. Ed è struggente sentirle dire: “chiamalo amore / … o non chiamarlo per niente” (o, ancora meglio, in dialetto: “ciamel amuur / o ciamel nagott”). E ancora più struggente il ritornello finale: “per piacere, chiamalo amore / anche se io non l’ho mai detto / chiamalo amore / chiamalo amore / chiamami amore”. Ho ancora adesso mentre scrivo i brividi alti come montagne, come le cime dei pioppi che alitano al vento. E’ bella questa canzone! E’ semplicemente bella. Troppo bella.
Ma sarebbe troppo semplice se fosse tutto qui. So che mancherà la spazio per parlare altrettanto di tutti i brani. Ma “Il reduce” è un’altra canzone da non lasciare scivolare via: “Aspetta un attimo a cacciare via il sole / e a lasciarmi solo con l’ombra / Sul muro la tua croce sembra che dondoli / quando accendo il camino / La poltrona conosce il mio peso / ma a sfondarla è questa memoria / che arriva col suo fiato di zampogna / per non fermi dormire / E se guardo questo guanto di pelle / con sotto un pugno fatto di legno / mi chiedo se la mano che ho perso / sta ancora sparando / o forse è stato il tuo regalo / strapparmi questa mano sciagurata / che pregava per non farsi uccidere / e sparava, sparava, sparava / ad altra gente che sparava / e sparava, sparava, sparava / ad altra gente che pregava”. Mezzo secolo dopo è la stessa canzone della “Guerra di Piero”, ma vista dalla parte di uno che è tornato (quasi tutto) a casa. Tutta da leggere, ascoltare e capire. Ogni singola immagine: dal bacio della morte, ai tre chiodi della croce di Cristo (“La mia, ovviamente, uno in meno”), ai soldati che imparavano “la geografia contando ogni posto che bruciava”.
“Dove non basta il mare” è canzone epica, è lezione di tolleranza. Van De Sfroos, cantore laghèe per antonomasia, canta la strofa in italiano e il ritornello è in dialetto, ma in friulano la prima volta (canta Luigi Maieron), in siciliano la seconda (Patrizia Laquidara), in calabrese il terzo (Peppe Voltarelli) e in greco (Roberta Carrieri) e conclude Davide nel linguaggio sciamanico di “Shymtakula”, spegnendosi in un rantolo. Un inno ad andare oltre le frontiere, “dove non basta il mare”: il vestito di Arlecchino linguistico di cui è vestito questo lungo stivale.
Ma devo ancora parlare de “El pass del gatt”: “sono cresciuto / ma non poi tanto / in questo posto dove il sole ti sbrana / dove inciampa anche la biscia / dove il tramonto non ha mai fretta” …”in questo posto non passa mai nessuno / non si ferma più nemmeno il tribunale / ma io una sera ho baciato una donna / e dietro una pianta mi ha detto il suo nome” e lei “ogni tanto arriva e ogni tanto se ne va / ho imparato ad aspettarla e poi a lasciarla andare”. Chi è lei? Non si sa. Ha il tatuaggio che le hanno fatto in prigione, che si vede quando si toglie i vestiti e la faccia è coperta per metà da un sorriso, per l’altra metà da una cicatrice. Lei che si muove con il passo del gatto e che è arrivata senza calze e senza amici. Magnifico l’arrangiamento, con un fischio che ricorda Morricone e dà l’aria di western al tutto.
Lo so, devo fermarmi. Dico solo che “Yanez” la conoscete tutti da Sanremo, che la finale “Rosa del vento” è come di prammatica un brano sul vento, che il disco porta via ed è un gioiellino acustico di 1’36”, che “Il camionista Ghost Rider” è da non perdere: un po’ sull’onda del Cimino o di “Balera”: quando Davide fa ridere. Qui però si parla di musica e la risata è per iniziati: prima del Gottardo da un passaggio a Johnny Cash, poi tocca a Woody Guthrie, Robert Johnson e Jimi Hendrix. Spettacolare la battuta con Roberto Johnson, il bluesman che suonava la chitarra come nessuno perché, si dice, avesse venduto a un crocicchio (crossroad) l’anima al diavolo in cambio della maestria nel suonare la chitarra. “la sua chitarra sembra vada a pezzi / ha le dita come dieci anguille, la pelle marrone / e la voce da donna / mi dice devo scappare dal diavolo / che mi cerca con in mano il mio contratto / Hey Robert Johnson, dai che andiamo, dai che andiamo / Comacchio non è la Louisiana, a le zanzare sono più cattive / neanche il diavolo si fa vedere quando è in arrivo l’ora del tramonto / e non temere per i crocevia … ché in Italia ormai sono tutti rondò”. Grande! Risate e applausi! Al casello di Cesena la stradale lo ferma. "Sembravate in cinque dentro la cabina un minuto fa". "Ci sono solo io con tutti i miei dischi / ma prego, potete controllare".
“Yanez” (e attenti al titolo che, non a caso, è dedicato al comprimario e non al protagonista Sandokan) è un disco pieno come una zeppola. C’è di tutto: dalla commozione alla risata. C’è dentro Davide, nudo forse come mai, con l’anima in mano, un’anima sensibile, un’anima femmina (come direbbe il mio amico Maieron), in grado di capire gli altri, osservarli e comparteciparvi. "Un poeta è una persona nuda", diceva Bob Dylan tanto tempo fa e concludeva "Qualcuno dice che io sono un poeta". Davide è un poeta. E’ pathos, è musica da ballare e musica per pensare. Ed è, tanto per cambiare, uno dei più belli dischi dell’anno!