Rosario Pantaleo intervista Davide su L'Isola che non c'era

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Rosario Pantaleo intervista Davide su L'Isola che non c'era

Messaggioda biagio » mer set 03, 2008 9:40 pm

Ecco l'intervista a Davide realizzata da Rosario Pantaleo e pubblicata sul sito de "l'isola che non c'era".
http://www.lisolachenoncera.it/interviste/?id=16
Ciao
Gianni&Graziella (G&G - Milano)




DAVIDE VAN DE SFROOS
Lo spirito del lago
di Rosario Pantaleo
Un grande cantautore Davide Van De Sfroos, uno dei più interessanti degli ultimi anni. Ma anche e soprattutto una persona – e non un personaggio – di straordinarie qualità umane e importanti visioni, con la rara caratteristica di osservare il mondo ritornandocelo svelato nella sua più profonda verità. Limitare Davide al solo campo artistico sarebbe fargli un piccolo dispetto: lui, che come i migliori narratori sa cogliere ogni minima sfumatura da un viso come da un tramonto, è un uomo “pericoloso” perché sa mettersi e ci mette a nudo. Di questi tempi operazione decisamente sovversiva. Soprattutto se lo sguardo di chi svela punta prima di tutto allo spirito delle persone.
Volevo partire da New Orleans, che è una stupenda canzone (d’amore) sulle assenze, su chi ci ha lasciati. Quanto è importante, per la tua musica e per la tua vita, la percezione delle assenze?
Alle assenze rendo la stessa importanza che do al silenzio per poterlo riempirlo di suoni, la stessa importanza che do al foglio bianco per poterlo riempire di parole. Di una canzone, di un romanzo. Se tu guardi bene l’arte è fatta di spazi dove domina l’assenza. Per poterla riempire hai bisogno di vuoto. Il vuoto lo consideriamo la mancanza di qualcosa invece altro non è che un contenitore che andiamo a riempire. Anche l’assenza di una persona, che è dovuta partire oppure che ci ha lasciato, lascia un vuoto che deve essere colmato e questo non è un male. Forse il regalo che ci lascia un’assenza è proprio il bisogno di doverla riempire. Nella canzone New Orleans l’innamorato dice, nonostante ci sia il diluvio ed il tornado, in questo caso il Katrina, in arrivo: «ma proprio adesso che tu ci stai, che abbiamo capito che ci amiamo guarda che dobbiamo scappare». Però è uno scappare insieme e, comunque, la mia canzone tu l’hai cantata ed ora che conosci il mio nome io ti riporto a New Orleans. Quella è solo una città, importante per questi innamorati, però è la chiave della storia e dimostra che la zattera amore può galleggiare anche dentro il disastro di una grande città. Questa, per me è una canzone d’amore molto potente, dove amore è scritto a lettere maiuscole rispetto all’ovvietà di parole come «lei è partita con il treno, non mi parla, non mangia, etc. ».

L’uso della lingua del lago ha fatto ritornare in vita mondi, persone, storie inaspettate, inusuali, sorprendenti. Non ti sorprendi anche tu quando la canzone che hai creato è terminata?
Se non fosse così non farei più questo lavoro perché il bello è proprio nello stupirti, tornando indietro con la memoria, per comprendere che per scrivere determinate cose dovevo essere in uno stato di trance e che ero come impossessato da qualcos’altro. Se tutto fosse compreso in un’equazione, in una materia algebrica, studiata a tavolino sulla metrica, sulla frase ad effetto io la riconoscerei soltanto come uno riconosce d’avere costruito una maniglia. Oppure un bottone. La canzone, grazie a Dio, è quella cosa che ti fa dire «ma chissà che cosa mi è venuto in testa quando ho detto questa frase qui» ed è la sfida a ritornare indietro per ricordarti che eri stato colpito da una certa emozione. Quindi la canzone che diventa una specie di cartina di tornasole per vedere cos’eri, com’eri e cosa provavi nel momento in cui hai visto o conosciuto una tal situazione oppure una tal persona. Ti dirò di più: ritrovo a volte degli scritti o delle cose registrate su cassetta che mi sorprendono e mi domando quando e se le ho scritte davvero io. E questa è la grandezza del lasciarsi trasportare dall’arte: sapere che non sei sempre sotto controllo, nemmeno di te stesso. Se uno potesse registrare i sogni al mattino direbbe che non è possibile l’averne fatti alcuni davvero strampalati. Invece siamo profondi proprio perché abbiamo in noi questo baratro nel quale ci perdiamo e su quel confine non ci conosciamo più. Da lì, da questo buio, tiriamo fuori le cose migliori che abbiamo dentro, non da quello che è già colorato. E’ come il daimon socratico che viene a trarre dal nostro profondo le parti più affascinati dell’essere.

Da “Ciundalari” a “Pica!” di tempo ne è passato ma la tua voce, di stampo soul, ha continuato a scavare nell’animo dei tuoi appassionati estimatori. Ma quanta e quale differenza esiste, realmente, tra Il fantasma del lac e Retha Mazur?
All’inizio è chiaro che usavo la canzone come un messaggio e componevo con la volontà di cantare a voce alta quello che mi premeva scrivere. Ascoltavo tanta musica, mi ispiravo già a qualcuno, volontariamente o involontariamente. Così si passava da Bob Marley ai Clash, da De Andrè a Fossati, dagli AC/DC ai Ramones, per cui è chiaro che io, che ho fatto anche del punk, passavo attraverso tutti questi stili e generi musicali. Queste esperienze, questi momenti hanno probabilmente forgiato il mio modo di cantare, hanno creato il mio stile musicale. E’ chiaro che all’inizio sei impreciso, arrivi poi a scavare e trovi un tuo sound più controllato da una parte ma anche più naturale. All’inizio sei più orientato sulla potenza ma col tempo, poi, arrivi a modulare le tue capacità ed a trovare un sound adeguato. Nel mio caso il sound non è modulato sulla potenza, sull’estensione, ma sui colori. Ci sono cantanti che hanno estensione, potenza, come Robert Plant, Francesco Renga. Abbiamo i suoni alla Janis Joplin ma poi ci sono anche le voci di Paolo Conte, De Andrè, Leonard Cohen, Neil Young che hanno delle voci inconfondibili. Ed anche tu quando scopri di avere un timbro particolare devi sforzarti non di scimmiottare altri artisti essere te stesso. Io, per esempio, potrei imitare al settanta per cento, se volessi, Tom Waits; chiudendomi il naso potrei imitare un po’ Dylan, mentre non potrei mai imitare Neil Young perché il falsetto non riuscirei mai a farlo, però potrei imitare anche un po’ Springsteen, se volessi. Cerco però di rimanere limpido ed essere me stesso e fare quello che faccio con il mio timbro vocale. Che cosa è cambiato dagli esordi? Probabilmente crescendo come persona è cresciuto anche il modo di scrivere, di cantare, il tipo di approccio alla registrazione. Una volta si andava a registrare un disco come un esame di maturità con degli sconosciuti che ti mettevano in una stanzetta ed in una giornata dovevi incidere, cercando di sbagliare il meno possibile. Adesso lo puoi fare a casa tua sottraendo tante cose inutili e con dei buoni microfoni e dei bravi tecnici, come Alessandro Gioia, per l’album “Akuaduulza”, è stato possibile raddrizzare ulteriormente il tiro con suoni naturali e diretti.

Ne Il cavaliere senza morte hai affrontato, in maniera originale, il tema della storia, della cupidigia, del potere, dell’incapacità dell’uomo nel trovare la felicità, della morte. Alla fine, dov’è che sbagliamo?
Se io avessi le risposte sarebbe bello poterne parlare ai popoli. Abbiamo addosso il virus della distruzione, del potere, della volontà di conquista. Siamo ancora belve, affamati, selvaggi più di quanto vogliamo far credere. Sicuramente non siamo dei cavernicoli. Siamo in grado di fare miracoli e l’abbiamo dimostrato con la tecnologia, con la scienza e con l’umanesimo e l’illuminazione di tanti. Con l’arte e l’ironia, con l’amore, però ci portiamo dietro un marchio pesante, un segno di male: il tatuaggio di Caino che fa sì che appena qualcuno raggiunge il potere cerca di sovrastare gli altri. Non sto parlando solo di grandi sistemi, di guerre tra nazioni; io parlo delle liti che spesso avvengono nei parcheggi. Noi non siamo capaci di trovare un’armonia dentro una riunione di condominio, figuriamoci in un continente, nel mondo. Siamo supponenti, crediamo di essere unici nell’universo, crediamo di esserci fatti da soli. Crediamo o non crediamo a seconda di quello che ci passa per la testa e, soprattutto, non accettiamo di diventare persone di passaggio, come i nativi americani che dicevano che questa terra ci è stata data in prestito dai nostri figli. E come diceva il vecchietto della canzone La televisiun siamo stati capaci di andare sulla luna a prendere un po’ di sassi però non siamo capaci di smettere di sparare a chi riteniamo diverso. Così come molte volte il diverso diventa molto scorbutico nei nostri confronti oppure il diversamente abile finisce per irritarsi per il tuo maldestro tentativo di supportarlo nelle sue mancanze e l’anziano si arrabbia perché lo fai sentire inutile e superato mentre il giovane è incazzato nero perché lo tratti da bambino ed il bambino vorrebbe essere grande ed il grande vorrebbe tornare bambino. Secondo me siamo tutti alla ricerca della felicità, è la felicità è come un fulmine che arriva all’improvviso, mentre noi dovremmo concentrarci di più sulla serenità. Sorella minore della felicità ma non per questo meno efficace. Partire dalla serenità sarebbe l’autostrada per la felicità.

Noi riteniamo di avere molti bisogni da soddisfare e poi perdiamo di vista le persone che ci stanno intorno, quelle con cui condividiamo la vita.
Si, e credo che abbiamo anche perso il contatto con la bellezza. Ci siamo creati dei bisogni, delle rabbie, delle torture, ci siamo creati delle prigioni da noi stessi. Il dovere avere per forza delle cose, i rituali patetici come i venerdì sera in autostrada, fare le code sotto il sole, alla ricerca di uno svago che è poi vissuto male. Ci siamo inventati dei gingilli che ci distraggono dalla bellezza vera. Ci siamo creati bellezze artificiali che ci rendono schiavi: senza quel tal telefonino ci sembra triste la vita, non ti sembra d’essere accettato nel gruppo di amici, senza quella cosa mio figlio si sentirebbe meno rispetto agli altri. Dovremmo essere capaci di riprendere in mano i testi dei nativi americani, degli aborigeni, degli eremiti, per ritornare a capire come poter essere felici in mezzo alla natura, ricordandoci sempre che il luogo in cui vivi ti contamina, nel bene e nel male. Però, ciò che ci sta intorno non è spuntato da solo. Non sono spuntate da sole le case, le strade, i treni. Queste cose sono importanti per la nostra vita ma, al contempo, è come se ci fosse sfuggito qualcosa ed abbiamo preso una strada velocissima verso il progresso e la produzione trascurando completamente i valori dello spirito. La mia sensazione è questa. La dimensione dello spirito è rimasta appannaggio di pochi mentre quella del progresso è diventato l’elemento che è sostenuto dalla vita delle masse.

Guccini dice che con le canzoni non si fanno rivoluzioni, però la musica è uno straordinario medium per evocare grandi forze interiori e per mantenere alto il senso della memoria. Nel tuo caso quali sono stati gli artisti che ti hanno aiutato in questi “esercizi”?
Sicuramente Battiato per tutte le citazioni, i rimandi alle cose dello spirito; sicuramente Bob Dylan per l’essersi ricordato di un grandissimo come Woody Guthrie che ha raccontato l’America dei tempi della grande depressione, e che è stato sempre capace di vivere la sua dimensione artistica senza soggiacere la piacere del pubblico. Un artista che rispetto è Vinicio Capossela, capace di scrivere canzoni piene di particolari. Se pensi ad un album come “Canzoni a manovella” ritrovi stili e storie di epoche lontane e grazie ai suoni ed alle parole vivi epoche fantomatiche che non sono la nostra. Come sound, invece, a ricordarmi l’infanzia ascolto moltissimo i Free (ho tutti i loro dischi), i Doors, i Creedence Clearwater Revival, i Led Zeppelin, i Jethro Tull, perché questi erano i suoni che captavo dai fratelli maggiori dei miei amici quando ero un ragazzino. Risentire Come together in the mornig ed altri brani dell’epoca mi dà una grande forza.

Qual era il tuo sogno più importante da bambino e che cosa vorresti si realizzasse nella tua vita?
Il mio desiderio più grande da bambino è lo stesso che ho adesso. Ovvero di poter captare, vedere, sperare, in un aiuto alieno che ci dia una nuova delucidazione sul come riuscire a superare i problemi della nostra terra perché a volte ho il dubbio che da soli noi non ne veniamo fuori. L’idea di extraterrestri, di alieni, della percezione di una fonte di vita extraterrestre mi ha sempre colmato di gioia e di completezza. Sapere di non essere soli in questo infinito, infinito, infinito è di straordinario sostegno per la vita quotidiana. Da bambino mi sforzavo, nella notte, di cercare nel cielo segnali di vita, un Ufo, qualcosa che desse ragione alle mie speranze. Poi, magari come in “Mars attack!” arrivano incazzosissimi e ci tritano tutti, che magari è quello che ci meritiamo. Però l’idea dell’esistenza di culture superiori alla nostra con un dono di quasi semidèi o dèi stessi che arrivino a darci una nuova speranza, una nuova possibilità è sempre stato il mio sogno di bambino. Il sogno di una salvatore ipergalattico forse è una forma di religione, di spiritualità perché il mio cercare Dio, continuamente, anche fosse un astronauta, probabilmente deriva da questo desiderio di avere una guida credibile che mi fa guardare oltre a quello che sappiamo. Poi, il desiderio più grande credo sia la serenità, che come ti dicevo prima ritengo più importante della felicità.


L’intervista completa a Davide Van De Sfroos sul prossimo numero de L’Isola che non c’era.
biagio
 
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