Una sera, un cortile, l'edera. Samarate 2004

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Una sera, un cortile, l'edera. Samarate 2004

Messaggioda breva » gio lug 01, 2004 11:03 pm

C’era una volta, e c’è ancora, un cortile con un muro bianco. Sul muro, un’edera rampicante con le foglie belle fresche.
Mica tanto lontana, una banda che suona ‘Io vagabondo’.
Nel cortile, delle persone sedute, che cantano ‘Io vagabondo’ di fronte a un uomo seduto su un palco, davanti al muro di edera, che sorride e aspetta.
Quando finisce la canzone, le persone applaudono,ma non per sfottò né per impazienza. Si specchiano nell’uomo che aspetta, e ne interpretano la quieta serenità.
L’uomo inizia a parlare, e legge pensieri sgorgati da due taccuini. Ogni tanto canta delle canzoni sue.
Vicino al palco sono seduti un chitarrista con gli occhiali da sole sulla fronte e un violinista-tamburellista con i capelli raccolti in una coda.Lo accompagnano, interpretando l’emozione che sgorga dalla voce dell’uomo, come le parole dai taccuini.
L’uomo legge saltando le pagine, creando e ricreando assonanze e consonanze come un poeta. Anzi, è un poeta che crea.
Ma crea anche musica, con la voce e la chitarra, riscrivendo, con la voce e la chitarra, le sue canzoni, cantate migliaia di volte, eppure che suonano nuove.
La gente seduta ascolta attenta. E diventa, di volta in volta, un indiano seduto sulla cima di una montagna che vede la fine della sua civiltà (la chitarra canta come un lamento); una madre che bisbiglia una ninna nanna al suo secondo figlio (la voce trema); un vecchio che si rivede bambino vestito coi vestiti da bambino (il violino dipinge ricordi); un fantasma che vaga per sempre sul lago (l’edera disegna riflessi azzurrini sul muro).
Diventa molto altro. Gli sguardi della gente prendono spessore. C’è chi guarda attonito, chi gusta la serata con la golosità di un bambino grande che si diverte col giocattolo preferito, chi si specchia in chi ama, chi si dice ‘finalmente ci sono anch’io’.
Quando la voce dell’uomo parla di un cammino ineluttabile e di una sabbia che bisogna calpestare perché il cammino prosegua, tutti pensano alla propria vita, vissuta e da vivere, e percepiscono quasi fisicamente la fatica dell’andare, e insieme la sua necessità, e ancora il dolore dei granelli di sabbia calpestati.
E quando è ora di andare via, la voce dell’uomo si abbassa fino a diventare un sussurro, e stempera la malinconia del saluto nell’ironia del gioco. Come quando, alla fine di una serata fra amici, ci si ferma ancora un po’, un poco solo, a chiacchierare e ridere sulla porta, per prolungare il piacere dello stare insieme.
Sembra una favola.
L’abbiamo vissuta.
Grazie a chi ce l’ha raccontata.
"Considero ogni forma di razzismo convinto una patologia e non un'ideologia" (Davide Bernasconi)
breva
 
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