La recensione di Davide Van
De Sfroos:
Mi è sempre piaciuto dire che siamo Uomini Fisarmonica,
che arriviamo fino ad
un certo punto e poi dobbiamo tornare indietro. Ma questo
tornare indietro, non
deve essere inteso come una resa, un ripiegare scoraggiati
o una mancanza di
entusiasmo, anzi, rappresenta probabilmente il viaggio più
coraggioso e
complesso, quello che in qualche modo ti vuole completare.
Luigi Maieron di questo viaggio ne è la mappa vivente,
il portatore sano, il
custode fedele e naturale. E' proprio lui l'uomo del ritorno
alle cose
primordiali , quelle che non possono rimanere per troppo tempo
nella soffitta
del tuo ricordo senza farla crollare prima o poi, quelle che
si sono fissate a
tal punto nella colonna vertebrale del tuo percorso artistico
ed umano, da non
potere essere accantonate o estratte in nessuna maniera. Il
ritorno a cantare
come non si canta più, con la chitarra tenuta come
in un abbraccio smodato e la
voce accostata al tuo orecchio.Il ritorno a sonorità
radicali e senza paure,
suoni che non hanno vergogna di sottrarsi a vicenda e di arricchire
le storie
cantate con la loro presenza selvatica e solitaria.
Raramente ho incontrato persone che dopo una lunga carriera
attraverso i
suoni e le cose da dire, hanno mantenuto quella determinazione,
quella
gentilezza nei confronti dell'arte stessa e quell'entusiasmo
da fanciulli
attempati. Questo è Luigi e non me lo sono inventato
io. Esiste per quello che
è senza cercare di essere qualcos'altro e grazie ad
un autore come lui, adesso
possiamo specchiarci ed emozionarci davanti ad un grande disco:
Vino tabacco e cielo.
Posso dire di averlo visto nascere, questo suo ultimo lavoro,
a partire dai
primi bocconi nei camerini di qualche teatro, di averne ascoltato
dei brani nei
vari festival dove Maieron è stato invitato come ospite
dal sottoscritto, ma
non è certo per questo motivo che mi vedete qui sul
ponte a sventolare
entusiasmo. siamo di fronte a qualcosa di finalmente libero
e ricco, di quella
ricchezza fatta di terre e di rocce, che non hanno mai smesso
di contenere
tutti quei passi e tutti quegli spettri che Luigi è
andato ad estrarre per noi.
Probabilmente ho avuto il privilegio di ascoltare la bozza
ormai finita del
disco proprio mentre attraversavo strade e montagne del Friuli,
passando
davanti al Vajont e a quegli agglomerati di case che sono
proprio il fondale
della sua bellissima I Fantasmi di Pietra e una canzone universalmente
emotiva
come Vino tabacco e cielo, guardando quei fiumi e quelle creste
di montagna
lungo i quali lui camminava dietro, davanti o accanto a questo
personaggio così
importante per lui ancora oggi. E' ovvio che un primo ascolto
dentro a simili
scenari, ti cuce addosso brividi e giacche in pelle d'oca,
ma anche se lo si
ascolterà a centinaia di chilometri da dove è
stato concepito, l'incantesimo e
l'abbraccio di quello che il disco contiene, non verrà
in alcun modo dimezzato,
perché il potere più forte di questi brani è
quello di essere inesorabilmente
evocativi. Credibili. Solidi sulla loro strada e conficcati
nella loro terra,
una terra che dopo esserci lasciati attraversare dalle storie
di Luigi Maieron,
tutti quanti avremo molta più voglia di andare a vedere.
Le sonorità di Vino Tabacco e Cielo, sono un dono,
venuto dall'alchimia e
dalla fermentazione, dalla mancanza di pruriti o di pressapochismi.
Non fai in
tempo a metterti a ballare che ti ritrovi con gli occhi lucidi
e una perla
commossa in gola, non finisci di asciugarti gli occhi che
sei di nuovo in
viaggio dentro altri luoghi e dentro altri occhi. Non credo
che questo disco
sia da ascoltare e basta, bisognerebbe avere il coraggio di
berlo, come il
vino, di fumarlo come il tabacco e di fischiettarlo guardando
il cielo.
Che dire... grazie Luigi, di essere tornato dove volevi tornare
e di averci
fatto salire a bordo della tua altalena.
DAVIDE VAN DE SFROOS
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l recensione di "Bielle"
La quercia ha ripreso a cantare. Ha deciso di affondare le
sue radici nel fango dei bayou, dove si specchiano le mangrovie
o di riflettere le sue cime nelle acque limacciose del Mississippi,
dove si proiettano le ombre lunghe delle magnolie. Abbandonati
violini e viole della tradizione folk e imbracciata la chitarra
come fosse una Old Betsy, Gigi “JJ” Maieron si
lancia sulle piste di frontiera sulle tracce di JJ Cale e
di Johnny Cash.
Con una fida compagnia di pards, novello Tex Willer, Maieron
arruola Kit Carson/Franco Giordani, socio ormai di lungo corso,
Tiger Jack/Davide Billa Brambilla, Mephisto/Ellade Bandini
e Kit Willer/Francesco Piu e con banjo, dobro, armoniche,
mandolino, fisarmoniche e chitarre costruisce un grande disco
di storie di frontiera.
Eh sì, perché la Carnia e il vecchio West hanno
molto in comune.
Terre di uomini che si muovono, che si spostano, alle prese
con un panorama naturale che li sovrasta e che non può
non lasciare tracce dentro di loro. E in Gigi (anzi in JJ)
Maieron si avvertono i boschi che mormorano, il silenzio dei
picchi isolati, la maestosità quasi divina degli altipiani
e la forza della natura, trasfigurata nelle grandi domande
dell'esistenza. Gigi racconta di gente che va e che torna,
di passato e di presente, di “chi è nato un po'
per caso, di chi resta fuori mano”, dei “fantasmi
di pietra” di quelle case rimaste in piedi dopo la tragedia
del Vajont, di soldati “in difesa di molti confini e
di una sola terra”.
Per farlo e per fare conoscere le sue storie più lontane
esce anche spesso dalla lingua della sua Carnia ma, potrei
giurarlo, senza abbandonarla mai. Maieron, come Van De Sfroos,
potrebbe cantare in hurdu o ugro-finnico e sempre canterebbe
le storie che porta incise nella pelle. Di confini, di strade
bianche, di traiettorie che passano laterali alla grande storia,
che a volte si intrecciano, ma quasi chiedendo scusa della
loro (presunta) irrilevanza. Temi che poi. invece sono quelli
dell'esistenza.
Al di là della musica, quello che colpisce di più
in Maieron è la particolare timbrica della voce: bassa,
profonda, intensa. Una voce che ricorda Leonard Cohen, ma
anche la corteccia di una quercia. Una voce magica al servizio
di temi come la memoria, l'amicizia, «il vissuto, la
solidità che l'esistenza pretende», per dirla
con le sue parole. Una vita, già intensamente vissuta
- Maieron nasce attorno alla metà degli anni ’50
- che a volte “costa un po’ di fatica in più”.
Ma non aspettatevi malinconia da questo disco che è,
fino in fondo, quello che promette di essere: un album di
viaggio epico sulle terre di confine, in qualsiasi accezione
si voglia intendere il confine.
"Le cose attorno a noi non dicono
tutto.
Fruga, trova il suono e ascolta.
Il suono parla prima delle parole.
Non temere ascolta.
Sali il pendio e riassumi.
Lascia cio` che non ti serve,
insegui il tuo suono tra le foglie ed i clacson.
E’ il gioco dei passi
tra lo specchietto e il domani,
fasci di nuvole tra vino e cielo.
Anche i colpi diventano suono
e il tuo canto cresce".
Così scrive Gigi sulla copertina dell'album, fotografando
in modo epigrammatico il contenuto, il viaggio, lo scopo dell'intero
lavoro. Che è, per togliere qualsiasi dubbio, un lavoro
egregio. Mi punge vaghezza di citare un particolare divertente.
Gigi Maieron è reduce da due album con Michele Gazich.
Massimo Bubola, quando ha smesso di collaborare con Gazich
ha fatto un disco eminemente chitarristico, Maieron anche.
L'eccesso di violini ed archi di Michele sembra quasi destinato
a "immunizzare" i suoi ex partner dal ricorso agli
archi. Ne escono però buoni dischi chitarristici, come
erano buoni quelli ricchi di violini folk. Una domanda oziosa
è chiedersi se queste storie di frontiera avrebbero
potuto suonare bene allo stesso modo aggiungendo il violino.
Probabilmente sì, ma tanto siamo destinati a non saperlo.
Per ora ci beiamo del suono scabro di alcuni brani ("Questa
faccia", "Filo spinato"), di quello comunque
rotondo di altri ("Vino, tabacco e cielo", "Il
peso della neve", "Cramar-marochin").
Si parlava prima della lingua. Maieron abbandona il carnico
e si appoggia quasi ovunque all'italiano: sono solo quattro
i brani totalmente in lingua: "Le cidule", "Trei
puemas","Dona mari" e "Cramar-marochin"
mentre "Argjentina" ha inserti di italiano qua e
là. Con un autolesionismo senza pari, Gigi si pone
appena al di fuori della regola del Tenco che impone di premiare
come dischi in "dialetto" (ebbene sì, loro
scrivono così anche quando si tratta di lingue) quelli
che sono "prevalentemente in dialetto". Ora o interviene
un po' di elasticità o vedremo Davide Van De Sfroos
in gara ancora per il dialetto con "Yanez", che
è a tutti gli effetti un album mainstream, del grande
giro della musica in Italia e "Vino, tabacco e cielo"
in gara solo come miglior disco, nonostante che sia un album
che ha la Carnia in tutti i pori, fino a suscitare anche il
dubbio che alcuni testi siano nati in quella lingua e poi
tradotti in italiano. Sarà possibile sperare in un
ritorno di logica nei giurati delle Targhe Tenco?
Che poi, personalmente, in questo disco preferisca i brani
in italiano a quelli in lingua è unapura coincidenza.
Ma è anche indice del fatto che Luigi non è
solo un poeta della Carnia. E' un patrimonio comune, che va
condiviso: così come Bennato (entrambi) o la De Sio
non sono solo di Napoli e Carmen Consoli o Battiato o Alfio
Antico non sono solo Sicilia. Alla cultura carnica Gigi deve
tanto e tanto dà. Anche in questo album 4 delle 5 canzoni
non in italiano derivano da poesie e canzoni locali. E "Done
Mari", di cui continuo a preferire la versione dello
stesso Gigi con la Sedon Salvadie, è un canto tradizionale.
Infine "I fantasmi di pietra" è liberamente
ispirata al romanzo omonimo di Mauro Corona che da tempo,
ormai, gira con Gigi con lo spettacolo "Due uomini di
parola".
Tanti amici importanti per Maieron, dunque: da Gianni Mura,
il primo ad aver parlato di lui, a Davide Van De Sfroos, da
Mauro Corona a Toni Capuozzo, da Michele Gazich a Massimo
Bubola ma nessuna soggezione. Maieron, questo "figlio
cresciuto un po' per caso o da amori perduti" si è
costruito pezzo per pezzo la sua carriera.
E già che abbiamo citato Van De Sfroos ricordiamo
un po' di simmetrie: i due personaggi, i maggiori cantacronache
delle loro zone, entrambi cantascrittori, entrambi utilizzatori
di una calata locale, si sono incontrati più volte
nei loro percorsi di questi anni, per le oblique vie che uniscono
quelli che parlano liberamente. Si sono incontrati e si sono
piaciuti. Davide ha iniziato a invitare Luigi alle manifestazioni
che organizzava, Gigi ha iniziato a eseguire dal vivo qualche
canzone di Davide (tra cui una intensa "Loena de picch"
e, a poco a poco, anche grazie ad amici comuni, tra cui il
mitico Edi, il rapporto si è stretto, fino ad arrivare
a questo disco, dove Davide ha prestato il Billa e Piu tra
i musicisti, il management del lariano ha preso la gestione
del friulano, fino ad arrivare alla bellissima recensione
che Davide in prima persona ha voluto scrivere per Gigi.
"Raramente - scrive Davide - ho incontrato persone che
dopo una lunga carriera attraverso i suoni e le cose da dire,
hanno mantenuto quella determinazione, quella gentilezza nei
confronti dell'arte stessa e quell'entusiasmo da fanciulli
attempati. Questo è Luigi e non me lo sono inventato
io. Esiste per quello che è senza cercare di essere
qualcos'altro e grazie ad un autore come lui, adesso possiamo
specchiarci ed emozionarci davanti ad un grande disco: Vino
tabacco e cielo. Posso dire di averlo visto nascere, questo
suo ultimo lavoro, a partire dai primi bocconi nei camerini
di qualche teatro, di averne ascoltato dei brani nei vari
festival dove Maieron è stato invitato come ospite
dal sottoscritto, ma non è certo per questo motivo
che mi vedete qui sul ponte a sventolare entusiasmo. siamo
di fronte a qualcosa di finalmente libero e ricco, di quella
ricchezza fatta di terre e di rocce, che non hanno mai smesso
di contenere tutti quei passi e tutti quegli spettri che Luigi
è andato ad estrarre per noi".(vedi il resto)
É difficile per me commentare razionalmente un disco
di Luigi Maieron. Questo in particolare che ho visto crescere
dai primi abbozzi voce e chitarra fino alla veste definitiva.
Ho assistito da lontano al parto, come un fratello, come uno
zio affettuoso, tra un risotto, un coro stonato, un bicchiere
di "Sfursat". Le ho sentite suonare sulla mia chitarra,
le ho ascoltate per mesi nella loro struttura scarna, in attesa
di vedere infine nascere il nuovo lavoro di Gigi, il più
aperto, il più solare, quello che probabilmente gli
porterà più consensi. Dal mio canto, nostalgico
e quieto, resterò per sempre avvinto alla poesia intima
e silenziosa di "Si vif", a quelle musiche scarne,
a quei silenzi, a quel soffio della natura. Aria rarefatta
di montagna, ma qui scendiamo in pianura, prendiamo i cavalli
e galoppiamo verso il sole rosso.
Perciò non ragiono su "Vino, tabacco e cielo"
come su un insieme di canzoni, ma come un'opera unica in più
capitoli o quadri. Come un libro di Steinbeck ("Uomini
e topi", "Pian de la tortilla"), con le sue
alternanze di momenti buffi e di tragedie, come un polittico
campestre in cui qui domina il giallo del sole, là
il mielato dei covoni di grano, più in giù ancora
il blu prussia del fiume, oltre il quale si allungano le prime
ombre della sera e ancora oltre i bagliori del fuoco attorno
al quale riunirsi con bottiglie di vino, pane e formaggio,
finché il sonno, a furia di parlare arrivi. Maieron
è un boccone troppo spesso per mangiarlo in un morso,
un vino troppo strutturato per ingoiarlo in un sorso. Tanti
piccoli sorsi, tanti piccoli morsi e altrettanti grandi pensieri.
di Giorgio Maimone, su "Bielle" |